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The Brave Boys Club: dove gli uomini “disimparano” la mascolinità tossica

Ogni giovedì, il gruppo milanese si riunisce per parlare di sessismo, stereotipi, abusi; per riconoscere la violenza contro le donne e (si spera) allontanarsene: «La nostra ambizione è lavorare sulla prevenzione», ha spiegato il fondatore del progetto Fabio Paracchini a La Svolta
Fabio Paracchini di The Brave Boys Club
Fabio Paracchini di The Brave Boys Club
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 8 min lettura
24 aprile 2024 Aggiornato alle 14:00

The Brave Boys Club è un progetto a metà strada tra una palestra e gruppi di auto mutuo aiuto, ideato da Leadagious (la “leadership farm che alleva e allena persone che vogliono diventare consapevoli della propria energia”) e definito dagli stessi fondatori “il primo spazio riservato agli uomini così coraggiosi da mettersi finalmente in dubbio, in crisi e in gioco”.

C’è chi potrebbe sorridere leggendo questa affermazione, pensando al fatto che non ci voglia quale coraggio, né tantomeno un club, per fare queste cose, mettersi in discussione… ma semplicemente il buon senso. Per questo l’intervista che Fabio Paracchini, co-founder di Leadagious e coach di The Brave Boys ha concesso a La Svolta è partita proprio da questo punto.

Come mai avete scelto questo nome?

Perché il coraggio è il tema centrale del progetto. Questo sentimento è stato considerato per tanto tempo una virtù maschile, associata a una certa idea di mascolinità ma noi crediamo che il coraggio non sia qualcosa di fisico ma che si esprima uscendo dal branco, rifiutando una cultura densa di stereotipi e non rimanendo in silenzio di fronte a un atteggiamento sessista. Al momento faccio il coach ma ho lavorato tanto in azienda e ho assistito spesso a riunioni in cui una cosa detta da una donna non veniva presa in considerazione, ma ripetuta 20 minuti dopo da un collega. Quasi mai qualcuno lo fa notare e anch’io più di una volta sono stato zitto. Per noi, invece, il coraggio è quello di esporsi.

Ma quindi cos’è The Brave Club?

Un luogo che, anche a livello di design, ricorda una palestra e che quindi punta a non essere respingente per i maschi ma accogliente. Un ambiente in cui ritrovarsi per allenarsi insieme a riconoscere e superare gli stereotipi, gli schemi culturali, le convinzioni limitanti e i privilegi radicati nella nostra società, per cercare e praticare una mascolinità più costruttiva. È innegabile che gli uomini godano, per il solo fatto di essere uomini, di vantaggi che le donne non hanno, ma invece di negarli o minimizzarli, durante gli incontri li facciamo emergere, ne discutiamo e li affrontano insieme, per offrirci a vicenda punti di vista che aiutino a migliorare il rapporto con le donne ma non solo.

Come funzionano le sedute?

Ci incontriamo ogni giovedì dalle 20:30 alle 22:30, in gruppi formati da massimo 17 persone che si dispongono in cerchio. Ogni seduta, gratuita, che ci piace chiamare di “Maschilisti Anonimi”, parte da un aneddoto personale, da un ricordo o da una notizia apparsa sui media. Da lì si sviluppa il dialogo nel quale non si esprimono giudizi ma si portano esperienze personali. I partecipanti non sono infatti chiamati a dire come vorrebbero che andasse il mondo ma che forma prende o vorrebbero che prendesse una determinata cosa nella loro vita. Si tratta di un lavoro introspettivo al quale gli uomini sono generalmente poco abituati e per questo preziosissimo. La nostra sede è in via Rivoli 4, davanti al teatro Strehler, e la sala dove facciamo gli incontri ha una vetrina che dà sulla strada, quindi capita spesso che chi passa o aspetta di entrare a teatro si fermi a guardare. La cosa non ci disturba, anzi. Di solito questo tipo di gruppi sono un po’ nascosti e privati mentre noi vogliamo essere pubblici e aperti a tutti.

Tranne alle donne

È vero, la partecipazione è riservata a chiunque si identifichi come maschio, ma si tratta di una scelta dettata paradossalmente dalla nostra idea di inclusione. Se vogliamo essere il più possibile pronti, come uomini, a intrattenere relazioni costruttive per portare del valore al tavolo della conversazione c’è un lavoro che dobbiamo fare prima da soli, allenandoci in uno spazio sicuro, dove nessuno (in primis le donne) senta i pensieri di cui andiamo meno fieri e possa giudicarci.

Com’è nata l’idea di The Brave Club?

Da tempo, soprattutto a seguito di determinati fatti di cronaca, si leggono un po’ ovunque grandi annunci e proclami sulla necessità di lavorare al tema della mascolinità tossica e della cultura patriarcale. Quello che però secondo me mancava era un progetto concreto, che passasse dalle parole ai fatti e così ho deciso di mettere a frutto le mie competenze nel coaching per dar vita a questo che, ci tengo a specificarlo, non è un progetto contro la violenza sulle donne perché non ha la presunzione di poterla contrastare con una sessione a settimana. La nostra ambizione è di lavorare sulla prevenzione. Più i maschi, uno alla volta, saranno consapevoli e costruttivi, meno ci sarà bisogno di preoccuparsi.

Che tipo di persone vengono alle sedute?

Quando siamo partiti ci siamo innanzitutto chiesti se sarebbero venute. Non era affatto detto che ci fossero molti uomini desiderosi di mettersi in discussione, invece fortunatamente sì. Il mio timore era anche di attirare tutte persone simili, in parte già consapevoli e convinte di essere dalla parte del giusto, invece sono felice nel constatare come la tipologia dei partecipanti sia molto variegata. Un ragazzo che è già venuto due volte, a esempio, è un senzatetto ucraino che ha scelto volontariamente di vivere in strada da un anno e che anche in virtù di questa decisione porta riflessioni molto diverse da chi gli sta seduto a fianco, che magari è un imprenditore, un giovane art director, un signore di mezza età che lavora in una casa editrice o un elettricista.

Sono venute anche persone che in passato sono state violente contro le donne?

Ovviamente non posso conoscere i vissuti di tutti ma al momento direi di no, anche perché credo che la motivazione principale che spinge questi uomini a partecipare sia il fatto che percepiscono una frizione tra i propri valori, quello in cui credono e il proprio comportamento. Sono consapevoli di non fare niente di negativo ma sentono che non fanno abbastanza per cambiare le cose.

Uomini che non accettano il classico “not all man”?

Esatto, uomini consapevoli che “non fare” (del male, battute sessiste, discriminazioni in prima persona) non sia più sufficiente e vorrebbero avere un impatto più positivo e costruttivo sulle donne ma non solo, anche su come vivono la propria mascolinità. Finora buona parte delle conversazioni non ha riguardato il rapporto con le donne ma quello degli uomini con loro stessi, come si vedono, come vorrebbero vedersi, come sono visti in quanto maschi e cosa vuol dire essere maschi oggi. Abbiamo parlato spesso, a esempio, di come si auto limitano nell’esprimere alcune emozioni e ancora prima nel sentirle, e quanto questo abbia un forte impatto sulle loro vite. Un padre una sera ha raccontato che mentre stava guardando un film particolarmente emozionante con suo figlio avrebbe voluto piangere ma si è trattenuto perché si vergognava. Un sentimento che ha riconosciuto come sbagliato ma che è arrivato spontaneo perché figlio di una cultura che ha sempre insegnato ai maschi a non piangere, a fare gli “ometti” e non le “femminucce”. Le donne negli anni hanno aperto delle discussioni, personali e collettive, su loro stesse mentre gli uomini non l’hanno mai fatto e molti ne sentono finalmente l’urgenza.

Tra i tanti partecipanti del Brave Boys Club, Michelangelo Cianciosi ha deciso di raccontare a La Svolta la sua esperienza.

Cosa ti ha spinto a partecipare?

Due cose: la prima, sono un pubblicitario e la mia industry è stata investita nell’ultimo anno da un’ondata molto simile al Metoo americano. Si è scoperto, insomma che all’interno di molte agenzie vigono pratiche vessatorie e umilianti nei confronti delle nostre colleghe. Ecco, ritengo che, come minimo, dobbiamo fare lo sforzo di approfondire. Il secondo motivo è che sono padre di due (ormai) ragazze, due gemelle di 13 anni e vorrei che potessero affrontare il futuro con le stesse opportunità che hanno i maschi.

Cosa stai imparando?

Non so se imparare è il termine corretto, non c’è nessuno che insegna. Ci sono le storie e le esperienze di ognuno e cerchiamo di trarne il massimo, discutendone e cercando di trovare un filo conduttore.

Cosa non avevi capito prima e che ora ti sembra più chiaro?

Avevo un sospetto che diventa sempre più una certezza: se l’autoconsapevolezza femminile e femminista è tornata a essere molto forte in questi anni, dopo decenni in cui sembrava passare sottotraccia, quella maschile è completamente da costruire. Non esiste una riflessione collettiva, forse perché facciamo fatica a parlare e parlarci. Il risultato è che siamo lasciati soli a noi stessi, con le nostre perplessità e a volte i nostri pregiudizi.

In che modo credi che gli uomini vadano coinvolti nella lotta alla violenza sulle donne?

Bisogna partire da un punto fermo che sembra lapalissiano ma non lo è: quello della violenza sulle donne è un problema tutto maschile di cui le donne sono vittime. Questo vuol dire che in realtà solo gli uomini possono fare qualcosa, che sono gli unici che ha senso coinvolgere nella lotta contro questo male. Le donne possono difendersi, manifestare, denunciare, ma il lavoro vero tocca a noi.

Concordi sul concetto di responsabilità collettiva maschile?

Mi piace il termine responsabilità. Lo prendo nel senso di “sentirsi responsabili”, prendersi carico e cura di qualcosa, assumersene gli oneri, e allora certo che c’è una responsabilità collettiva maschile proprio perché, dicevamo, è una battaglia che va combattuta dagli uomini, altrimenti non se ne esce. Sono meno concorde con la lettura nel senso di “colpevolezza collettiva maschile”, sia in termini generali (la colpevolezza è sempre solo individuale, se si oltrepassa questo limite si apre la porta a ogni tipo di discriminazione e razzismo), sia in termini di opportunità “politica” se mi si passa il termine: non si addossa la colpa a qualcuno che non ha commesso alcunché per poi cercare di coinvolgerlo positivamente, l’essere umano non funziona così.

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