Economia

Servono 2,2 milioni di occupate in più per eguagliare il livello occupazionale medio Ue

Nel suo studio L’Italia in Europa. Perché non siamo competitivi, Confcommercio spiega che portare le donne italiane nel mondo del lavoro permetterebbe di sanare un divario ancora pesante con il resto dell’Europa
Credit: Ron Lach  

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23 aprile 2024 Aggiornato alle 10:00

In un paese che nell’ultimo anno ha vissuto livelli record di assunzione, a fronte però di buste paga sempre più leggere, i lavoratori italiani pagano il “tasso di sacrificio” dovuto dalla stretta monetaria delle banche centrali per uscire dall’inflazione, che erode sempre gli stipendi più bassi. Un clima economico così teso non fa certamente bene alla competitività del nostro paese in Europa, dato che con un minore potere d’acquisto si riduce la domanda interna di beni e servizi dei consumatori. Dunque si frena la crescita economica e si influenza negativamente la produttività delle aziende anche sui mercati internazionali.

Stando alle rilevazioni dell’Ufficio Studi Confcommercio, nella ricerca L’Italia in Europa, perché non siamo competitivi (presentata all’apertura della ventitreesima edizione del Forum Confcommercio) il problema demografico è fra le principali cause di riduzione del benessere economico, dato che la quota di popolazione in età lavorativa negli ultimi dieci anni è scesa dell’1,4%.

Ad appesantire ulteriormente la questioni ci sono poi le differenze di genere nel mercato del lavoro, che delinea un distacco ingiusto e dannoso fra uomini e donne a livello occupazionale e dunque di reddito percepito. Eppure, sottolinea il report, la soluzione al problema passa necessariamente dalle donne, favorendo la partecipazione femminile al mondo del lavoro. In particolare, basterebbe eguagliare il livello occupazionale delle donne italiano a quello della media dell’Unione europea per ottenere 2,2 milioni di occupate in più, oltre che un tasso di disoccupazione maschile e femminile di gran lunga ridotto.

Il tema della crescita insufficiente si traduce in un aumento della produttività in Italia dal 1995 circa cinque volte più basso di quanto rilevato in Germania. Gli effetti negativi del problema si riverberano anche sui salari medi dei dipendenti full time, che dal 1995 al 2022 hanno subito una variazione positiva di appena il 4,2%, a fronte del 19,4% e 27,8% registrato negli ultimi 27 anni rispettivamente in Germania e in Francia.

La partita intera si gioca anche sul campo delle scelte personali. Come evidenziato dall’economista Shelly Lundberg, la crescente importanza dell’economia comportamentale e culturale fa emergere quanto il contesto sociale, politico e culturale in cui si vive sia in grado di condizionare le aspettative e le decisioni delle donne, le quali dunque in determinati ambienti non tengono neanche in considerazione l’idea di una carriera Stem o un percorso accademico generalmente più frequentato da maschi, rinunciando dunque a una carriera più ambiziosa e dunque maggiori possibilità di guadagno.

La probabilità di rimanere fuori dal mercato si intensifica poi dopo la nascita di un figlio. La maternità si pone come un ulteriore vincolo che conduce le donne a lavorare molte meno ore o addirittura lasciare l’impiego pur di badare ai figli. Ciò si traduce in una vera child penalty, ossia una perdita in termini di reddito da lavoro subita dalle madri che, in base ai dati Eurostat, tratteggia un divario tra salari maschili e femminili al 4,3% in Italia. I livelli lavorativi tendono a peggiorare specialmente nelle regioni del Sud, dove all’aumento del tasso di fertilità fino a livelli superiori a quelli medi nazionali (1,42), corrisponde una drastica riduzione del tasso di partecipazione femminile al mondo del lavoro.

La strada da prendere per recuperare terreno è quella di aumentare il numero di posti negli asili nido, ma anche migliorare le politiche per la genitorialità. Ricucire le differenze salariali e lavorative fra donne e uomini risulta quindi il salto da compiere necessariamente per potenziare la crescita e dare nuova linfa alla produttività italiana sulla scena globale, ma prima di tutto occorre aumentare la consapevolezza sul tema e non sottostimare l’impatto che un maggiore accesso al mondo del lavoro potrebbe provocare a livello economico, politico e culturale nel nostro paese.

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